mercoledì 1 novembre 2017

La "Sisifo" dei giorni miei

"Sì, Chiara, ma che fatica!"

E' da giorni che mi gira in testa questa frase detta da una mamma durante un colloquio.

Quelle parole mi sono arrivate dritte, precise, senza troppi "merletti". 
In quel momento ho sentito come mi dessero in mano un enorme masso. Certo! Impossibile da sorreggere. Come fare per poter liberare le mani da quel peso?


Mi sono sentita come Sisifo (figura della mitologia greca) ed, in una frazione di secondo, ho immaginato quella donna esattamente come lui per tutto quello che ha passato e sta, ancora, passando. Non appena arriva in cima al monte con il suo masso, inevitabilmente, rotola alla base.


Una donna, davanti a me, che giustamente e sapientemente, ha voluto con-dividere con me il suo stato d'animo. La sua fatica, la sua storia di vita, i suoi sforzi e quel masso che, sovente, le fa ricominciare tutto daccapo.

Mi sono chiesta, in quel momento, che cosa potevo fare io per poter alleviare quella fatica e quella pesantezza.
La cosa più onesta che potessi fare!

Restituirle il dato di realtà.

Da quando la conosco, circa due anni, è riuscita ad avere un lavoro (non quello della vita, non quello sognato e non quello che ti permette di "respirare"), una casa, una macchina (vecchiotta, ma il suo dovere lo fa) ed ora può curarsi.
Può sembrare poco, ma da dove siamo partite...bè quello che ha conquisto è l'oro olimpico.

Abbiamo messo mano tante volte ai vari tasselli del puzzle, li abbiamo analizzati uno ad uno per prendere confidenza e capire quale fosse quello giusto per poter iniziare a costruire.
In alcune occasioni i toni si sono anche accesi perchè tutto sembrava "impossibile", ma alla base - e non del monte, ma di quella donna - c'è determinazione e, sopratutto, un obiettivo.

Con lei ho condiviso parte del suo cammino, sono entrata nel suo mondo e spesso l'ho dovuta portare in questo, ma concordo con uno dei miei cantanti preferiti quando canta...

"Ogni male è un bene quando serve
Ho imparato anche a incassare bene [...]
E quando sulla schiena hai cicatrici
E lì che ci attacchi le ali"

Chiara

lunedì 4 settembre 2017

Essere mamma...è bello!

"Essere mamma è bello!" così inizia un post scritto da una mia amica e collega Assistente Sociale, Elisa Bianchi

"Essere mamma è bello" ed io inizio a leggere il suo post convinta di leggere parole dolci e di incoraggiamento alla maternità, invece mi trovo davanti ad una lucida analisi di quella che è la realtà di oggi. Ho terminato il suo scritto sconfortata e dispiaciuta e non solo perchè è Elisa, ma perchè mi chiedo quante "Elisa" ci siano e quante siano le loro fatiche, le loro battaglie quotidiane e quanta la loro forza per reagire ed essere il "motore che muove il mondo", o così almeno credo io!

Elisa ha avuto il coraggio e la voglia di mettere nero su bianco i suoi sentimenti e quella che è la sua realtà ed è per questo che merita di essere pubblicata e letta da più persone possibile, insieme alle parole di Tito Boeri che il 5 luglio scorso ha dichiarato: «il reddito potenziale delle donne lavoratrici subisce un calo molto accentuato pari a -35% nei primi due anni dopo la nascita del figlio, soprattutto fra le donne con un contratto a tempo determinato, perché provoca lunghi periodi di non-occupazione. Le madri sono anche "vittime" del precariato. Non sorprende perciò constatare come la crisi abbia fortemente ridotto le nascite -20% nel Nord del paese. I costi della genitorialità - ha aggiunto Boeri - potrebbero essere fortemente contenuti non solo rafforzando i servizi per l'infanzia, ma anche e soprattutto promuovendo una maggiore condivisione della genitorialità».

Vi lascio alla lettura senza aggiungere altro.

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Essere mamma...è bello! essere (neo) mamma lavoratrice....un po'meno. 
Quando scopri di essere incinta, hai quasi timore a comunicarlo a lavoro; lo fai come se dovessi giustificarti per la tua "condizione", ti pare di essere anche un po' stronza a non avere reso partecipe il tuo datore di lavoro di quanti potenziali rapporti a rischio hai avuto nel periodo fertile. 
Ok, vai in maternità. Inizi ad approcciarti alle simpatiche signore del Patronato per le varie pratiche. In coda, in piedi, fuori dagli uffici dal mattino presto perché ti hanno detto che fanno passare solo 15 persone. Che vuoi che sia un'ora e mezza di coda?Si, prova a farlo con un peso costante sulla vescica e la carenza da zuccheri della mattina!
Comunque ora sei a casa, puoi goderti in tutto relax la tua gravidanza. Ok, è passato un mese e ti sei già un po' stufata di incontrare lo stesso vecchietto al parco, le tue amiche lavorano, maledici il fatto di non avere un cane da portare a passeggio almeno due volte al giorno. Ikea ti viene in soccorso e così rivoluzioni casa, tipo che dal mattino alla sera il tuo compagno di rientro da lavoro si trova una stanza in più in casa. 
Arriva il tanto atteso giorno, è nato. Sei mamma. È la cosa più bella che tu abbia mai visto ma pensi "mai più nella mia vita, grazie!" 
La tua liason con le gentili signore del Patronato non si è ancora conclusa. Entro 3 mesi del pupo devi correre per prorogare la maternità. Chiami, appellandoti alla comprensione, chiedendo un appuntamento in modo da evitare la coda di cui sopra, al freddo di dicembre, con un neonato. Ti dicono che non possono farci nulla, "signora, deve essere lei a organizzarsi!" Rimandi almeno 3 volte: la prima perché consapevolizzi che al mattino non hai una vita fuori dal pigiama e la tetta pronto uso, la seconda perché ti sono ricomparse le emorroidi da parto (anche se ti chiedi se mai ti avessero lasciata) e non riesci a stare seduta, la terza ti vesti, vesti il pupo, lo cambi, carichi passeggino e ovetto in macchina, lo cambi-nuovamente-, arrivi mezz'ora prima dell'apertura, ti senti estremamente figa. Sbagli giorno.
Nei mesi successivi, dai fondo a tutte le tue ferie e permessi perché con il 30%dello stipendio ci fai ben poco.
Arrivi al settimo mese del bimbo e decidi di rientrare a lavoro. Ti autoconvinci che va bene così, che è giusto così, che si è adattato benissimo a stare coi nonni. Ma dentro te hai un magone che manco il primo giorno di scuola. Devi farlo però....la tua posizione da precaria ti mette nella posizione di dovere dimostrare anche in questa occasione quanto tu sia contenta di lavorare e pronta, prontissima per farlo!
Al mattino piangi, ma lo fai in bagno, di nascosto e velocemente, perché mentre ti lavi i denti hai il pupo sulla sdraietta che urla e richiede le tue attenzioni. Arrivi a lavoro, scompigliata come se ti fossi appena alzata da una notte di sesso. Non è proprio così. Il pupo sta mettendo i dentini e ci ha tenuti svegli quasi tutta la notte. Ma va bene, riusciamo ad alternarci bene- confidi alla collega, di fronte al tuo decimo caffè della giornata.
Le giornate passano tra la lotta a concentrarti in ciò che fai e i video/foto che i nonni mandano sui gruppi Whatsapp di loro con il pupo: in bici, al parco, sul prato, a passeggio, mentre fa la pappa e la nanna. Esci da lavoro, vai a recuperarlo dai nonni, i quali ti fanno il resoconto di ogni funzione corporale espletata dal cucciolo. Torni finalmente a casa e iniziano le "calde ore serali": gioco, bagnetto, pappa, preparazione cena, cambio pannolo, nanna, cena-la tua-finalmente. 
In tutto questo periodo da ricovero in Casa di cura, a lavoro pensano bene di fare un concorso. Sai che è la tua grande occasione per regolarizzare finalmente la tua posizione. Riprendi a studiare. Si, fallo con un pupo bisognoso di attenzioni che stai ancora allattando. Ogni frazione di tempo libero studi, le "pause siga" di una volta sono sostituite dalle poppate, hai bava e briciole tra le pagine-strappate -dei libri. 
Affronti le prove a testa alta, stringendo stretto il pennarello blu con cui giocavi con il piccolo mentre ripassavi il giorno prima. 
Non va come sarebbe dovuto andare per avere determinate garanzie. D'altronde, a chi era seduto dall'altra parte della scrivania -giustamente- non importa che hai passato le notti in bianco, che sei talmente prosciugata dalla stanchezza che non riesci a memorizzare le nozioni come da manuale, che hai ripreso da poco a lavorare ed è ancora tutto così strano...
In un attimo ti ritrovi a ricoprire il cliché della giovane madre che ritorna dalla maternità... e non ha più il lavoro. E tu, che fino ad ora ne avevi solo sentito parlare da persone lontane da te, ti rendi conto di quanto punga questa situazione. 
Ti vengono proposte alternative e capisci come, dopo un figlio, le tue valutazioni sulle proposte lavorative cambino. Ti vergogni, perché non sei mai stata così, eppure ora il primo elemento che valuti è la distanza dal luogo di lavoro. Ti scopri andare su Google Maps per calcolare il percorso casa-lavoro. Anzi no, ti viene spontaneo inserire quello lavoro-casa, perché pensi subito quanto ti ci vorrà a ritornare dal tuo bimbo a fine giornata lavorativa. Non osi fare parola con nessuno delle tue perplessità perché tu hai già "l'handicap" di avere un bimbo piccolo, non puoi permettertelo !
Io credo davvero che una madre all'interno di un'azienda sia un valore aggiunto e non un deficit, come spesso viene vista. Diventando mamma acquisisci una capacità di problem solving, di essere multitasking, di empatia, di solidità...che dovrebbe esserci la voce "mamma" sul cv. Purtroppo penso che fino a che la domanda "pensa di avere figli?" a colloquio di lavoro, scaturirà sudori freddi nella candidata di turno (perché non viene chiesto ad un candidato...) le politiche sociali italiane dovranno fare i conti con l'ignoranza, la mancanza di visioni lungimiranti e l'inevitabile mancanza di crescita economica.
Amare il proprio lavoro ed avere una famiglia è davvero così utopia?


giovedì 24 agosto 2017

Quando "staccare la spina" serve davvero

Dopo soli 2 -3 giorni di vacanza sono stata poco bene, mi sentivo come se avessi la febbre, ero stanchissima e riuscivo solo a dormire.

Ho passato gli ultimi mesi a correre, sotto pressione e di notte dormivo poco.
Sono arrivata al 14 luglio letteralmente "sui gomiti", ero così stanca che non avrei retto neanche un'ora di lavoro in più; il cervello ero saturo, il corpo era accartocciato, gli occhi erano gonfi ed il mal di testa non passava, martellava e martellava.

Ero carica a molla, sapevo di dover andare e la mia molla scattava, però...però sapeva di avere una scadenza il 14 luglio.

Sono partita il 14 luglio alle 23.30 con solo due ore sonno e andava bene così, dovevo solo chiudere tutto alle mie spalle, fuggire e spegnere ogni cosa, compresa la mente.
Ossigeno, iodio, tranquillità e libertà.

Avevo 15 giorni per capire cosa non aveva funzionato negli ultimi mesi, o quanto meno metterlo a fuoco, perchè cosa non stava funzionando lo avevo ben chiaro, ma non sapevo come mettere un freno!

Un'idea! Prima di ogni cosa: "downshifting" che letteralmente significa "scalare la marcia" e  così ho fatto. Avevo i pensieri sempre in circolo ma, ho pagato cara la conseguenza di questo rallentare, o meglio dell'aver corso troppo...prima.
Sono stata poco bene, ho sentito calare l'adrenalina ed aumentare la spossatezza, la stanchezza ed il sonno arretrato.

Non è giusto! Non era giusto e, devo imparare e capire che, non sarà giusto!

Il mio lavoro è un di cura, cura intesa come benessere, come autonomia, come cambiamento e come attenzione. La domanda, a questo punto, è: chi si prende cura di chi si prende cura? Domanda sicuramente già sentita e banale, la cui risposta, però, non lo è.

Ho scelto un lavoro interessante, dinamico, delicato, ma che richiede la giusta dose di "comprensione del sè ed i propri limiti", e quanto è troppo è troppo. E' importante riconoscere che è "troppo" e mettere un freno, mettere in atto il downshifting e rallentare.
Nessuno di noi è un super eroe, vorremmo tanto, ma siamo umani, con limiti e risorse e se vengono meno queste ultime e non sappiamo riconoscere i primi, abbiamo certamente fallito. Non possiamo svolgere il nostro lavoro se siamo sull'orlo del burn out, se bruciamo, non siamo come il fuoco che scaldiamo od illuminiamo, ma ci facciamo e facciamo del male.

Sono un operatore sociale, un'assistente sociale, ma sono anche una figlia, una donna, una compagna, un'amica ed una sorella ed il mio vissuto personale non deve inficiare il mio lavoro e quest'ultimo non deve essere "la mia vita", perchè c'è un tempo per...




martedì 24 gennaio 2017

La pazienza

"Quanta pazienza", "santa pazienza", o ancora "sto perdendo la pazienza!"

Quante volte utilizziamo queste espressioni? Ed ancora quante volte siamo vittime di chi la pazienza la "perde", oppure siamo chi cerca di aggrapparsi anche a quel briciolo di pazienza che gli resta?

Nel vocabolario Treccani si legge: "paziènza (ant. o region. pacènza, pacènzia, paciènza) s. f. [dal lat. patientia, der. di patiens -entis «paziente»]. –  Disposizione d’animo, abituale o attuale, congenita al proprio carattere o effetto di volontà e di autocontrollo, ad accettare e sopportare con tranquillità, moderazione, rassegnazione, senza reagire violentemente, il dolore, il male, i disagi, le molestie altrui, le contrarietà della vita in genere".

Voglio partire da questa definizione perchè, di recente, quella disposizione d'animo l'ho persa, mi è sfuggita di mano in un contesto poco adeguato ma, ne sono certa, per una buona causa. Il mio agire professionale.

Ogni giorno combattiamo affinché il "nostro" operato sia rispettato e riconosciuto, per far in modo che la nostra professione non venga nè vissuta nè interpretata erroneamente, ma sappiamo anche che ci scontriamo contro grandi muri che, ancora oggi, sono difficili da abbattere.
Ecco, forse, in alcuni casi, non soccombere, non lasciarsi sopraffare e - con valide argomentazioni - sostenere la propria posizione permette di dimostrare che la professione di Assistente Sociale non è inferiore a qualsiasi altra. 

In una conversazione telefonica, pochi giorni fa, ho avuto il (dis)piacere di dover constatare quanto la mia professione ancora non sia compresa e conosciuta e quanto altre, invece, si sentano in diritto di inveire, giudicare e criticare e non in maniera costruttiva.

L'articolo 10 del Codice Deontologico dell'Assistente sociale recita così: "L´esercizio della professione si basa su fondamenti etici e scientifici, sull'autonomia tecnico-professionale, sull'indipendenza di giudizio e sulla scienza e coscienza dell´assistente sociale. L´assistente sociale ha il
dovere di difendere la propria autonomia da pressioni e condizionamenti, qualora la situazione la mettesse a rischio". 
Avere autonomia (su una determinata situazione) significa anche assumersi responsabilità (tecnica) e questo, quindi, comporta avere autonomia durante tutto il processo di aiuto, senza dimenticare sia la partecipazione delle persone in ciascuna delle fasi sia la collaborazione con gli altri colleghi, che come ricordano Bianchi E. e Filippini S., "naturalmente ciascuno per il proprio ruolo e sfera di competenza" (Le responsabilità professionali dell'assistente sociale, 2013, p.39).

Io ho difeso la mia sfera di competenza, il mio agire professionale e, di fronte ad urla e parolacce che poco si addicono ad un professionista, ho perso la pazienza alzando il tono della voce. Ho provato ad usare le "buone", ma a poco è servito. Non tolleravo più nè la maleducazione nè lo scarso riconoscimento del lavoro svolto, con alle spalle un preciso mandato istituzionale e professionale.

Mi è stato detto, da una persona più saggia di me, "Chiara quando ci vuole...ci vuole!" e ci voglio credere!