martedì 15 maggio 2012

Era freddo che la primavera non si capiva dove si fosse nascosta

Quest'oggi non pubblicherò niente di mio. Pubblicherò uno scritto che un collega mi ha inviato. A me non piace la parola "collega", trovo che sia fredda ma, per oggi, andrà bene.
E' uno stralcio di vita e la parola importante, da tenere bene a mente, è vita.
Lo ringrazio per il contributo e lascio a voi la lettura e, soprattutto, la comprensione.

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Era freddo che la primavera non si capiva dove si fosse nascosta. Però era maggio ed ero in canottiera: portavo il cane ad annaffiare la vita e le aiuole, e nel frattempo ero passato in edicola ad acquistare il Guerin Sportivo. Anche la signora dei giornali mi confermava che la temperatura si era irrigidita, ed il cagnolino tirava verso casa per tornare sulla sua poltroncina. Avesse potuto parlare con la signora dell’edicola, anche lui gli avrebbe detto che, ebbene si, la temperatura si era drasticamente abbassata.


“Fè!”.
 Mi sento chiamato per nome, dall’altra parte della strada, da una ragazza. Abito una zona che frequento poco: conosco tanta gente dove lavoro e poca dove vivo. La ragazza è magra, smunta, ma le si allarga un sorriso. Un sorriso bello. La conosco, e da tempo, ma lo capisco solo quando la riconosco. Abbiamo parlato tante volte. Viene da un altro continente, ma è cresciuta qua in Italia, vive in un paese dove ho lavorato, vive là da quando aveva 6- 7 anni. Faccio un rapido conto: ha diciannove anni, ma sembra che la vita l’abbia risciacquata con un programma sbagliato e risputata fuori infeltrita.
Le labbra screpolate, gli zigomi che sporgono, il viso scavato. Mi sembra un incubo.
Fuori è freddo e dentro l’anima mi si gela ancora di più.

“Abiti qui?”.
Si, abito qui, ci manca solo che vivo lontano, che con questo freddo mi ritroverebbero ibernato. Il mio cagnolino, otto chili di asocialità ed una propensione ad abbaiare che stordisce timpani e comprensione umana, rimane silenzioso.
Non so cosa abbia capito, ma come al solito qualunque cosa io stia pensando, lui la capisce meglio di me. E’ silenzioso, lo guardo e lui sembra dirmi “Ti aspetto, fai quello che devi fare”. Ma è lei che parla.

“Vivo da queste parti, con il mio ragazzo. Lui è agli arresti domiciliari. Mio padre non mi parla più. Sai che ho ancora il numero del tuo ufficio?”.
Insomma, io non è che voglia etichettare nessuno, ma se è agli arresti domiciliari magari quel ragazzo- il suo ragazzo- ha fatto qualcosa di male. “Sei piccola, sei proprio sicura che la convivenza sia la cosa più giusta?”. In realtà mentre sto finendo la frase lei riprende a parlare. Ha sempre voluto comunicare con me. Lo ha sempre fatto. Quando succedeva qualcosa, il primo a saperlo ero io. Che poi parlavo coi suoi genitori. Una volta la incontrai all’ambulatorio del suo dottore e lei mi venne ad abbracciare di corsa. Al medico disse che ero il suo assistente sociale. Di solito non funziona così. Con lei sì.

“Ho vissuto un dramma l’anno scorso. Non mi sono ancora ripresa.
Nell’ultimo periodo sono dimagrita tanto: ora faccio uso di sostanze”.
In tre minuti, mentre il vento mi sferza, mi rovescia gli arretrati di una vita che mi era rimasta in sospeso. Prima almeno una volta al mese la vedevo, e lei mi parlava apertamente. Non so perché, in effetti neanche io sapevo perché. Con lei mi sono sempre potuto permettere di bluffare. Le dicevo che sapevo che aveva fatto qualcosa, e lei mi raccontava tutto. Io seguivo l’istinto nel farle alcune domande e nel trarre conclusioni, e lei scopriva le carte con l’ingenuità che dovrebbe contraddistinguere ogni adolescente. “Che dice tua mamma?”

“Mi dice che mi vuole bene e mi chiede di tornare a casa”.
“Chiamala, torna a casa subito. No?”

“Mia mamma devo vederla domani. Domani glielo dico. Domani torno, che dici?”.
“Torna stasera”.

E’ ferma, sembra che anche lei finalmente si accorga del freddo che fa, fuori e dentro di noi.

“Torna stasera- continuo- o torna domani, ma torna presto, torna da lei. Dopodomani mi chiami al numero che hai, mi chiami assieme a tua mamma, e vediamo di aiutarti”. Non so se sia giusto. Non so quello che è giusto. Non so se, come anni fa, ho improvvisato bene, ho capito immediatamente cosa quel volto adesso segnato voleva comunicarmi. Vorrei solo tornare a casa ad intiepidirmi l’anima. Vorrei caricarla in macchina, accendere il riscaldamento e riportarla dalla sua mamma. Le dico che aspetto la sua chiamata, dopodomani.

“Ti ricordi quando quel giorno che parlavo con te in ufficio passava con la moto il ragazzo che mi piaceva, ed io…”
… E lei si emozionava, e piangeva, e rideva, e mi chiedeva cosa fare, e guardava fuori, e poi mi guardava e poi guardava ancora fuori a seguire quella moto con lo sguardo e mi chiedeva se era giusto stare con un ragazzo e non essere sicura di fare la cosa giusta. Ed il voler andare in discoteca, e le amicizie giuste e quelle sbagliate, ed i sogni di una vita da vivere. Come posso non ricordare? Ed ora quel volto emaciato, scavato, quella vita che le vedo dietro quel sorriso bello, quella vita che lei mi permette di vedere, perché c’è ancora, nonostante tutto e nonostante i problemi.

L’ho incontrata da ventisette ore, domani sarà quel dopodomani che le ho detto.
Stasera ho paura di non sentirla telefonare, domani.
Ma ho fiducia che lo farà.

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